L’indicazione all’utilizzo di farmaci anticoagulanti è sempre subordinata alla valutazione di un bilancio rischi/benefici, che tenga conto del rischio trombotico contingente e del rischio emorragico intrinseco al paziente e legato al tipo di anticoagulante proposto.
Il paziente affetto da COVID-19 presenta una serie di alterazioni dell’emostasi rilevabili con il laboratorio, che sono conseguenti alla tempesta citochinica a cui è sottoposto durante la malattia. Le alterazioni sono presenti in tutte le fasi della malattia e hanno carattere ingravescente.
Numerose pubblicazioni negli ultimi mesi hanno suggerito una peculiare associazione tra eventi trombotici ed infezione da SARS-CoV-2 ed è stato anche coniato il termine di coagulopatia associata a COVID-19.
I dati di un recente registro europeo hanno dimostrato che oltre la metà dei pazienti affetti da fibrillazione atriale ha un’insufficienza renale cronica (IRC) lieve o moderata. Questo aspetto è molto importante poiché incide sulla prognosi dei pazienti in quanto l’IRC è associata a una qualità inferiore della terapia anticoagulante con antagonisti della vitamina K (AVK), e aumenta il rischio di complicanze sia ischemiche che emorragiche.
Una terapia ipolipemizzante intensiva mediante statine dopo un attacco ischemico transitorio (TIA) o un ictus ischemico di origine aterosclerotica è fortemente raccomandata; tuttavia, non è chiaro quale sia il livello ottimale di colesterolo “cattivo” (LDL) da raggiungere e mantenere in questi pazienti.
La coagulopatia in corso di COVID-19 è un aspetto particolarmente rilevante dell’evoluzione e della prognosi della malattia e le attuali strategie per prevenire gli eventi tromboembolici sono dibattute e altamente eterogenee.